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Israele e Hamas: zuppa o pan bagnato?

Israele e Hamas: zuppa o pan bagnato?
Riceviamo e pubblichiamo un contributo di riflessione sulla questione israelo-palestinese. Sebbene non sia espressione di un punto di vista affine alla nostra sensibilità e al nostro patrimonio teorico, ci sembra che offra, comunque, alcuni spunti di interesse. 
La redazione web

La guerra infinita tra lo Stato di Israele e Hamas è la dimostrazione tragica e inequivocabile della validità del principio fondante del libertarismo: il potere (qualunque tipo di potere) uccide. Nelle nostre società, “adagiate” nell’illusione di senso e successo che edonismo e consumismo alimentano in maniera scientifica e criminale, il potere uccide le libertà e i valori non conformi; in Palestina si concede il vezzo, spesso e volentieri, di uccidere colpevoli e innocenti, soldati e civili, “buoni” e “cattivi”. Uomini, comunque. E donne, e bambini, e anziani.

A pensarci bene, perché mai ci si dovrebbe meravigliare? In fondo, di che cosa stiamo ragionando? Da una parte, uno Stato il quale, per quanto “democratico” (il Lettore mi perdoni ma non riesco a utilizzare questo termine senza virgolette, riferendomi a “democrazie” fondate su mandati rappresentativi non imperativi), per quanto “in regola” nelle sue relazioni con gli organismi internazionali, per quanto rappresenti per l’Occidente devoto dei principii laical-razional-illuministici un faro di civiltà nel marasma informe degli -ismi mediorientali (fondamentalismi, radicalismi, guerrasantismi, ecc.)… uno Stato, dicevo, che, in fin dei conti, non può non essere quello che è: uno Stato, appunto. Ontologicamente. E che cosa ci si può aspettare da uno Stato (qualunque Stato), se non che agisca come Stato? Oligarchicamente, impositivamente, con metodi violenti, secondo principii e interessi non negoziabili asserviti all’ideologia autoritaria e con l’obiettivo finale di qualunque organismo statuale: l’autoconservazione.

Dall’altra parte, un’organizzazione paramilitare (più militare che “para”) le cui modalità operative nella lotta contro il nemico esterno e nel controllo del sostegno (forzato) dei propri concittadini sono basate su atti di violenza intollerabili e spregiudicati. A volte, perfino apparentemente incomprensibili, se si vuole escludere l’unica spiegazione plausibile: il ricorso alla spregevole tattica del “tanto peggio tanto meglio”.

Terzo attore, per lo più inascoltato e invisibile (se non in occasione di ipocriti, melodrammatici scoop pseudo-giornalistici), letteralmente preso tra due fuochi (e non importa se “amici” o “nemici”): la gente comune. Gli uomini e le donne della Palestina, gli abitanti musulmani, quelli ebrei, quelli cristiani, coloro che sono semplicemente esseri umani, senza distinzioni né etichette, ai quali nessuno dei due feroci duellanti può (ne mai potrà, finché esisteranno) dare ciò che loro veramente desiderano, potentemente e urgentemente, più del cibo quotidiano, più del benessere materialistico, più della vita stessa: la pace e la libertà.

In queste condizioni, da che parte potrebbe schierarsi un libertario coerente e in tutta coscienza, se non con i libertari di tutti i paesi in conflitto sul pianeta e, nello specifico, con i libertari della Palestina? Territorio che pure, in un non lontano passato, aveva saputo ospitare esperienze di autogoverno di rara efficacia e suggestione: le comunità kibbutz. Villaggi arabi e kibbutzim sapevano bene come gestire e risolvere i loro problemi di confini e utilizzo delle risorse (prima di tutte, l’acqua): attraverso il dialogo, gli impegni reciproci, le comuni responsabilità. Certo, ogni tanto si verificavano delle baruffe, e talvolta qualcuno ne rimaneva vittima, ma l’interesse di entrambe le parti alla fine prevaleva sempre sugli istinti e le incomprensioni reciproche. L’interesse concreto, pratico, quello che si incarna nella vita quotidiana, non certo gli interessi ideologici, magari travestiti da dogmi religiosi non negoziabili, che infiammano da sempre gli Stati e i poteri egemonici di qualunque continente, etnia e confessione. E soprattutto l’interesse principale, generativo di tutti gli altri: l’interesse a vivere in pace, potendo liberamente perseguire la propria idea di felicità.

Su queste basi era possibile (sarebbe possibile?) immaginare una federazione israelo-palestinese formata da comunità arabe e kibbutzim, micro-regioni, città metropolitane situate al di qua e al di là del Giordano, dal deserto del Neghev fino al monte Hermon. Pacifica, cooperante, plurietnica e pluriconfessionale? Altro che due Stati (sic!) e due popoli!

Libertari di tutto Eretz Yisrael, unitevi!

Patrizio

civicieliberi@gmail.com

Per approfondimenti:

  • Tra gli “ismi” di Giora Manor, A-rivista anarchica, anno 24 nr. 214, dicembre 1994 – gennaio 1995 – http://www.arivista.org/?nr=214&pag=214_16.htm
  • Autogestione d’emergenza di Victor Garcia, A-rivista anarchica, anno 9 nr. 75, giugno 1979 – luglio 1979 – http://www.arivista.org/?nr=075&pag=75_07.htm
  • Viola Tesi, Kibbutz e utopia, Pontecorboli editore, 2018
  • Lorenzo Cremonesi, Le origini del sionismo e la nascita del kibbutz (1881-1920), Giuntina, 2^ ed. 1995

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